Cosa succede quando diverse etnie, razze, culture si trovano a convivere nel medesimo territorio? E cosa accade quando ciò si verifica su di un territorio ristretto come l’ambiente di lavoro? Il mondo, così come si presenta nell’attualità, ha delle caratteristiche di complessità tali da essere difficilmente inscrivibili all’interno di regole e descrizioni semplici perché ogni tentativo di semplificare implica una necessaria perdita di informazioni e il rischio di banalizzare il tutto in formule scontate e stereotipate.
I fenomeni globali come l’immigrazione di massa da sud a nord e da est a ovest, la globalizzazione dell’informazione, la liberalizzazione dei commerci, la velocità di sviluppo della tecnologia moderna hanno contribuito alla grande diffusione di molte culture su territori differenti da quelli di provenienza. La fotografia della società attuale è quindi quella legata alla mescolanza di popoli provenienti da diverse parti del pianeta anche su territori, come la nostra provincia di Belluno, in cui storicamente la presenza dello “straniero” non è mai stata così marcata a causa sia delle caratteristiche territoriali (isolamento orogeografico, pochi collegamenti stradali e di trasporto pubblico) che di quelle economiche. In effetti la provincia di Belluno ha dovuto adeguarsi solo recentemente al fenomeno del multiculturalismo, fenomeno a cui altri territori sono invece arrivati decenni fa.
Cos’è la multiculturalità?
Possiamo definirla come la coabitazione tra diversi gruppi linguistici, culturali, religiosi che vivono nel medesimo spazio territoriale e dal cui incontro e confronto sorgono necessità di mediazione e integrazione. Questa convivenza implica ovviamente tutta una serie di delicate questioni legate al difficile rapporto che si può instaurare fra differenti tradizioni etniche e religiose. La tentazione della chiusura e della contrapposizione è molto forte e si esprime talvolta in pesanti forme di discriminazione. Il paradosso del mondo moderno è caratterizzato, su un piano strutturale, da un processo di unificazione dei popoli della terra provocato dalla caduta delle barriere fisico-geografiche mentre sul terreno culturale si affermano tendenze particolaristiche e spinte settoriali.
Il pregiudizio è anche favorito da motivazioni di carattere psicologico. Il bisogno di certezze spinge a semplificare la realtà escludendo a priori tutto ciò che risulta estraneo al proprio sistema. Il “diverso” viene automaticamente percepito come “nemico” e questo vale soprattutto in riferimento a figure che incarnano, nell’immaginario collettivo, la tipologia dell’avversario religioso e razziale. Un altro meccanismo psicologico che spinge verso la costruzione di strutture di pregiudizio è legato alla paura della perdita dei propri valori e della propria specificità, in una parola della propria identità. D’altra parte la convivenza multietnica e multirazziale solleva problemi che non possono essere sottovalutati. Bisogna infatti tenere conto di come l’impatto con visioni del mondo e della vita completamente diverse dalle proprie possa creare stati di profondo disagio. Questo perché ad essere scosse non sono solo le abitudini quotidiane ma anche tutto il sistema di valori sul quale si articola l’ordinamento della vita personale e collettiva.
A cosa è dovuto questo disagio profondo?
Bisogna pensare al contesto in cui questo si sta verificando: la nostra società Occidentale è in realtà una società che ha iniziato a perdere solidità e definizione. Il timore della perdita di identità diventa allora direttamente proporzionale alla sua scarsa consistenza. In altre parole laddove identità soggettiva e senso di appartenenza collettiva si indeboliscono si produce uno stato di vulnerabilità che sollecita per reazione la nascita di atteggiamenti di chiusura e di assolutizzazione del proprio punto di vista.
E’ un po’ quello che accade alle persone con problemi di salute mentale: la loro “pelle psichica”, quando c’è, è talmente sottile che la loro mente si sente continuamente minacciata e invasa da qualunque contenuto esterno che entri in contatto con loro. Questa condizione li pone in uno stato di allerta continua e li costringe a mettere in atto tutta una serie di massicci meccanismi difensivi al solo scopo di preservare intatto il loro fragile nucleo interno.
La nostra società ha delle caratteristiche molto simili a questa condizione: la “pelle culturale” che dovrebbe fare da confine si è assottigliata a tal punto da rendere gli individui al suo interno indeterminati e insicuri e quindi soggetti al continuo timore di invasione da parte dell’”altro”. In effetti quando i confini sono troppo rigidi o troppo fragili il rischio che si corre è quello di togliersi la possibilità di un incontro produttivo e nutritivo con ciò che sta al di là del confine stesso. In questo caso l’incontro diventa uno scontro che genera rifiuto, chiusura e allontanamento.
Un confine ben definito ma permeabile permetterebbe invece di considerare la diversità come arricchente perché in questo caso, a fronte di una identità culturale solida e ben definita, posso permettermi di incontrare l’”altro” per conoscerlo e nutrirmi della differenza senza per questo temere di perdere parti della mia identità o di doverla leggermente modificare per integrare parti provenienti dall’esterno. E’ ovvio che laddove si incontrano le diversità si generano anche delle zone di tensione e di difficoltà comunicative. Il conflitto molto spesso è inevitabile; però il conflitto non ha solo un’accezione negativa poiché può diventare foriero di novità e di nuove soluzioni, fatta salva però la capacità delle varie parti di stare dentro il conflitto senza demonizzarlo. Che è come dire di trovare un modo di “configgere senza distruggere”: l’elaborazione positiva dei conflitti diventa allora occasione per tutti di ricerca di forme nuove e allargate di comunione, nonché di armonizzazione creativa della realtà partendo dalla piena valorizzazione delle differenze.
Bisogna purtroppo ammettere che alla base della paura e del conseguente rifiuto del diverso e dello straniero ci sono anche e soprattutto motivazioni di ordine oggettivo. Se pensiamo ai recenti fatti di cronaca la paura e l’esclusione diventano addirittura terrore e rigetto. Lo sgomento, l’angoscia e lo smarrimento che provocano nelle persone eventi come quelli di Parigi, di Istambul e di Colonia sono inenarrabili. Il cittadino non si dà spiegazioni su come possano accadere cose del genere. Molto probabilmente questi eventi poco hanno a che fare con la Cultura con la C maiuscola e le sue diverse declinazioni. Il problema è l’effetto dirompente che essi hanno sull’immaginario collettivo. In un clima del genere diventa ovviamente molto difficile operare nel senso dell’inclusione e della integrazione.
E diventa purtroppo quasi impensabile fare il salto di qualità passando da una condizione di semplice multiculturalità ad una visione di interculturalità. L’interculturalità presuppone infatti il superamento dell’atteggiamento di mero assistenzialismo tollerante per fare spazio alla logica dello scambio fra culture e ad una interazione dinamica fra esse. Perché funzioni davvero sono assolutamente necessarie le fondamenta basate sulla fiducia nel confronto positivo fra le culture e la volontà di attivare tale confronto nel segno di un’autentica interazione che permetta l’uscita da uno stato di autodifesa per assumere un atteggiamento di apertura positiva.
Su queste tematiche il nostro territorio fa invece storia a parte. Se pensiamo alla provincia di Belluno troviamo delle caratteristiche che la rendono un po’ più particolare rispetto alle altre zone regionali. Belluno è una provincia di confine, Belluno è una provincia con una lunga storia di emigrazione, Belluno è una provincia di montagna.
Il bellunese ha sicuramente in famiglia almeno un parente che è stato costretto nel periodo del dopoguerra ad emigrare all’estero per sostenere sé stesso e la sua famiglia. Anche le generazioni più recenti hanno sentito almeno una volta nella loro vita i racconti di qualcuno dei propri familiari che, avendo vissuto all’estero, ha ben conosciuto la sensazione di trovarsi straniero in terra straniera.
Il bellunese, essendo culturalmente portato ad essere un gran lavoratore, tende a categorizzare le persone in base a quanto si danno da fare nella vita. Una qualunque persona che si trasferisca a Belluno provenendo da qualunque parte del mondo, sia essa Roma, Napoli, Casablanca, Bucarest o Varsavia, avverte inizialmente un senso di chiusura nei suoi confronti. Il meccanismo di accoglienza che viene messo in atto dalla popolazione locale è in genere molto lento ma diventa quasi automatico nel momento in cui lo “straniero” dimostra di avere una grande forza di volontà e una gran voglia di fare, egli viene inserito nella comunità senza grandi pregiudizi sulla sua provenienza, lasciando cadere ogni sorta di diffidenza iniziale.
In questo senso la nostra cooperativa incamera esattamente questo meccanismo; all’interno dei nostri cantieri sono presenti le più disparate etnie e culture. Indiani, marocchini, rumeni, tunisini e italiani lavorano fianco a fianco quotidianamente.
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