Il circolo vizioso della cronicità
Cominciamo ad introdurre con questo primo articolo il tema del lavoro persone svantaggiate. L’inserimento in ambito lavorativo delle persone affette da disabilità è un processo articolato e richiede una serie di procedure atte ad ottenere l’integrazione della persona attraverso il processo di riappropriazione della sua capacità relazionale e produttiva. Per capire bene di che cosa stiamo parlando iniziamo con una premessa collegata alla fase iniziale della malattia.
Quando una persona si ammala di una qualche forma di disabilità mentale, il locus della responsabilità della sua vita si sposta dalla persona al sistema di salute mentale o a quello giudiziario. Questo genera in loro la sensazione di trovarsi nell’impossibilità di dirigere gli eventi che le riguardano: in tal modo sono pervase da un profondo senso di disperazione e si sentono senza aiuto.
Si innesca allora un circolo vizioso di questo tipo:
- le persone con disabilità non possono autodeterminarsi perché soffrire di una malattia mentale significa perdere la capacità di ragionare, quindi diventare irrazionali e matti. Ne consegue che tutti i pensieri, le scelte, le volontà e i bisogni di quella persona vengono ignorate;
- il sistema di salute mentale prende il controllo e inizia a fare delle scelte al posto loro;
- dopo un po’ gli utenti apprendono l’impotenza, la solitudine, l’irresponsabilità, la dipendenza;
- la profezia che si autodetermina: man mano che questi elementi si rafforzano tanto più essi diventano parte stabile della propria identità e il circolo vizioso diventa sempre più vorticoso e stretto.
Conseguenze:
- sfera della motivazione: non mi interessa più nulla perché quello che faccio non importa a nessuno;
- sfera della cognizione: qualsiasi azione io possa fare non riesco a incidere minimamente sulla mia situazione;
- sfera emotiva: non voglio più sforzarmi di fare qualcosa;
- sfera dell’identità: sono un malato cronico senza speranza, inaffidabile, senza valore, un peso per la società, sono infantilizzato e non ho alcuna autonomia da utilizzare, non ho nessuna possibilità di fare progetti per il futuro, devo accontentarmi di lavori umilianti…
Sentimenti predominanti
I sentimenti predominanti sono ostilità, rassegnazione, rabbia, depressione, l’ansia, ritiro, acquiescenza, senso di fallimento. Questi sentimenti non recedono né con i farmaci né con la psicoterapia ma solo con l’esercizio alla scelta, la riacquisizione della contrattualità e il riapprendimento del controllo sulla propria vita. Sicuramente la malattia mentale toglie della capacità che possono riguardare la competenze nel rispondere in modo soddisfacente alle richieste proprie e altrui venendo a mancare le abilità sociali e sul piano dell’esecuzione dei compiti quotidiani oltre che nei rapporti con se stessi e con gli altri. Ma c’è dell’altro: reiterati fallimenti da parte del paziente provocano nel contesto frustrazione, disappunto e, alla lunga, rifiuto e allontanamento. I movimenti di rigetto feriscono la persona che per difendersi tende ad evitare le situazioni deludenti ritirandosi dai compiti che hanno causato fallimento e dalle relazioni eccessivamente impegnative. Il restringimento progressivo degli spazi e la povertà degli stimoli portano a una ulteriore riduzione del funzionamento. L’isolamento è accompagnato da sentimenti di rabbia e di colpa sia da parte delle figure significative sia da parte della persona interessata. Molto spesso questo processo va a creare un quadro di aggravamento di una condizione mentale che già in partenza era fragile. La risposta del sistema in genere è quella di etichettare queste persone attribuendo loro una diagnosi psichiatrica dove l’etichetta di malattia serve a spiegare comportamenti altrimenti incomprensibili, a giustificare i fallimenti dei tentativi finalizzati a produrre cambiamenti e a motivare le operazioni di allontanamento. Specularmene l’individuo si convince di avere un danno organico identificandosi con la diagnosi psichiatrica e con i pregiudizi ad essa connessi (imprevedibilità, pericolosità, oscenità ecc.).
L’attribuzione di una diagnosi sposta l’attenzione dalla relazione persona/ambiente all’area del fenomeno patologico che, come tale, non riguarda la persona come essere sociale ma solo il suo cervello malato. A questo punto la persona con diagnosi psichiatrica inizia la sua carriera istituzionale, fatta di ripetuti tentativi di trattamento. I numerosi insuccessi terapeutici sviluppano nel sistema curante e familiare pessimismo nell’efficacia di una terapia che produca modifiche significative. Il paziente diventa allora sempre più riluttante a impegnarsi in nuove avventure terapeutiche. La sua ritrosia viene interpretata come conferma della malattia, mentre in realtà si tratta di una resistenza ad investire su esperienze che, come già accaduto in passato, sono probabilmente destinate al fallimento. Anche il paziente insomma diventa sempre più pessimista circa le sue possibilità di cambiamento.
L’ultimo passaggio di questo processo è caratterizzato dalla rinuncia parallela da parte del paziente e del contesto ad ulteriori sforzi per produrre una modificazione dello status quo. Tutti quindi si impegnano per la conservazione del sistema (mantenimento della persona desocializzata in una condizione stabile che rappresenti la minima minaccia sociale possibile). Il paziente approfondisce il solco che ha già tracciato intorno a sé, irrigidendosi nel ritiro emotivo e relazionale e dirigendo contemporaneamente tutte le sue energie a mantenere la situazione di isolamento e di distanza dagli altri. Come viene connotato il “paziente schizofrenico cronico”? Attraverso il ritiro sociale, la rigidità comportamentale ed emotiva, la non rispondenza alle aspettative altrui, l’evitamento delle relazioni e la mancanza di reciprocità. Guarda caso il frutto del circolo vizioso appena descritto….
I professionisti della salute mentale
Il compito dei professionisti della salute mentale è favorire la riappropriazione della capacità di agire. Sono quindi da evitare atteggiamenti di commiserazione, pietismo e assistenzialismo. Per uscire dalla cronicità è fondamentale che le persone imparino a mobilitare le proprie risorse e potenzialità per gestire la malattia invece di esserne dominati. L’alleanza con il sé attivo e in via di guarigione crea un rapporto di collaborazione efficace.
L’obiettivo è quindi:
- effettuare interventi di restituzione della persona alla società consentendole la riappropriazione di un ruolo produttivo, riducendo il carico familiare prevenendo le ricadute;
- promozione di processi di guarigione e non solo di riduzione dei sintomi;
- prevenire o ridurre gli svantaggi sociali e le limitazioni funzionali;
- aumentare le performance di ruolo.
Questa premessa è indispensabile per affrontare l’argomento che tratteremo nel prossimo articolo relativo alla difficoltà di gestione dello svantaggio in ambiente lavorativo, ovvero Cosa significa avviare al lavoro persone svantaggiate.
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